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La bocca del dragone “la leggenda”

L’intero paese di Volturara Irpinia, In passato veniva inondato dalle acque e la neve dal Massiccio del Terminio che di riversavano alla piano “La piana del Dragone”. Fino a seguito al terremoto si è aperta una voragine naturale denominata Bocca del Dragone, pendici del Monte Costa, che funge da inghiottitoio naturale delle acque. Successivamente a tale fenomeno, nella stagione invernale, l’acqua piovana che tende a raccogliersi nella parte più depressa della piana, forma un bacino naturale denominato Lago Dragone.
Il mistico racchiude un insieme di eventi, racconti, che hanno fatto parte della nostra storia: uomini e immagini che col passare del tempo, di bocca in bocca, sono diventati leggenda.
Secondo un’antica leggenda, la Piana del Dragone assunse tale nome proprio perché, nei pressi dell’inghiottitoio sotterraneo a tre archi, denominato appunto Bocca del Dragone, viveva un drago a tre teste che terrorizzava gli abitanti del paese. Si racconta che, a quei tempi, nascosto nel grembo del monte Costa, la reincarnazione del male, avesse assunto la forma di un DRAGO. I pochi superstiti, che ebbero la fortuna di scampare alla furia del mostro, raccontavano di un enorme drago con tre teste e un solo occhio. Molti uomini di coraggio ebbero la presunzione di affrontarlo, ma di loro non si seppe più nulla. Uno straniero
Un giorno, giunse in città un uomo di nome Gesio. Il suo aspetto tradiva la sua provenienza: alto più di due metri e con una chioma lunga e dorata si capiva sin dal primo sguardo che doveva venire dal più profondo nord.

Gesio aveva un lungo mantello, una possente armatura ed uno scudo su cui capeggiava un misterioso stemma raffigurante tre colline, una quercia ed un corvo. Arrivato nei pressi di Volturara Irpinia l’uomo si appropinquò ad una fonte d’acqua per bere, quando vide una fanciulla che, vicina al fiume, piangeva disperata.
Straziato da quei singhiozzi, Gesio le si avvicinò e le chiese il motivo delle sue lacrime, porgendole un brandello di stoffa strappato dal suo mantello. La ragazza raccontò della terribile maledizione che ormai gravava sulla città, raccontò dei barbari, del drago e dei sacrifici. Il cavaliere la consolò e le disse di aver già sperimentato sulla propria pelle la crudeltà dei Visigoti, verso cui covava desiderio di rivalsa e vendetta.
Poi si allontanò senza proferire altra parola, stringendo la propria spada e lasciandola colma di domande e perplessità. Gesio, dopo aver liberato i ragazzi, entrò nella grotta, ben deciso a combattere la belva che terrorizzava la città. Man mano che s’incamminava nel dedalo di gallerie naturali, avvertiva sempre più chiaramente la presenza del dragone: la terra e le pareti della caverna tremavano, l’aria era sempre più calda e satura di un odore terribile e fetido.
Dopo molto camminare, alla fine Gesio raggiunse l’antro dove la bestia viveva: era enorme, gigantesco, ed aveva davvero tre teste ed un solo occhio. Approfittando della distrazione del dragone, che in quel momento stava divorando una delle vittime sacrificali che i barbari gli avevano portato, provò ad attaccarlo; ma il drago lo vide e si scagliò su di lui.
Le tre teste lo morsero, le fauci di ognuna delle sue bocce conficcate in una parte diversa del corpo di Gesio: una morse le gambe, un’altra il busto ed l’ultima il braccio sinistro. Il drago schiacciò la sua preda sul pavimento, e sentendo l’armatura cedere sotto la forza del morso e del peso del mostro, l’uomo capì di doversi muovere in fretta.
Fortuna volle che il suo braccio destro, quello che impugnava la spada, fosse l’unica parte rimasta libera. Facendo un grande sforzo, riuscì a sferrare un colpo verso il drago, riuscendo a colpire proprio il suo unico occhio. Gridando con quanto fiato aveva in gola e usando tutta la forza che gli era rimasta, Gesio spinse la spada fino all’elsa ed anche oltre nel corpo del dragone: attraversò l’occhio e la testa fino a giungere al cuore della bestia.
Il drago si accasciò al suolo: era morto. I punti dove le tre teste del drago si schiantarono crearono tre profonde voragini e, dopo qualche istante, il corpo della belva svanì nel nulla. Da allora la grotta venne chiamata “La bocca del dragone”.

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